L’emergenza Covid-19 non è solo sanitaria ma anche economica, poiché le rigide misure restrittive che il Governo ha dovuto necessariamente adottare per contenere la pandemia stanno causando uno shock generalizzato, senza precedenti storici, che coinvolge sia l’offerta sia la domanda ([1]).

In particolare, il Governo con l’art. 1, comma 2, del D.L. 25 marzo 2020, n. 19 ha imposto gravose limitazioni o finanche la sospensione alle attività commerciali di vendita al dettaglio, di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e alle altre attività d’impresa o professionali. 

Tali restrizioni (c.d. lockdown) hanno avuto effetti immediati sull’economia, da un lato, spingendo i consumatori a limitare le spese non procrastinabili (si pensi soprattutto ai settori turistici e dei servizi) nonché a posticipare le altre, anche se non sussiste alcuna certezza che verranno poi effettuate in un secondo momento (si pensi agli acquisti durevoli, ad es. auto e casa).

Dall’altro lato, ha spinto le persone a modificare completamente i consumi, che solo per la metà presentano livelli invariati o crescenti rispetto al passato (si pensi al settore alimentare, dell’informatica e dell’informazione), mentre la restante metà ha registrato tassi di contrazione di entità eccezionale, che per interi settori porta quasi all’azzeramento della domanda (si pensi al settore ristorazione e alberghiero).

Dal 4 maggio 2020 inizia la “Fase 2” con la quale si dovrebbero progressivamente attenuare le misure limitative imposte sia alle imprese sia alle persone. Tuttavia, la riapertura delle attività non rientranti nell’elenco dei codici ATECO di cui all’Allegato 1 del D.P.C.M. 22 marzo 2020, non consentirà alle imprese un ritorno a stretto giro alla normalità, dovendo comunque le medesime adottare tutta una serie di misure cautelari (distanziamento, disinfestazione dei locali, ecc…), che temporaneamente ne ridurranno apprezzabilmente la produttività e il fatturato.

Analogamente, le restrizioni limitative della libera circolazione e assembramento delle persone, che permarranno verosimilmente ancora per diversi mesi – congiuntamente peraltro alla paura di contrarre il virus e all’incertezza sul futuro – consolideranno il riscontrato trend di modifica e contrazione dei consumi, quantomeno per specifici settori produttivi, come ad esempio bar, ristoranti, alberghi, palestre, fiere.

Per quanto concerne specificamente il settore alberghiero e recettivo in generale – il quale è stato espressamente escluso dal lockdown e a cui è stata però imposta l’adozione delle misure di cui alle linee guida, provvisorie e generiche, pubblicate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo scorso 31 marzo 2020 – secondo le stime dell’Osservatorio sui bilanci 2018 del Consiglio e della Fondazione Nazionale dei Commercialisti si assisterà al dimezzamento del fatturato (-53,8%) con una perdita di 7,9 miliardi di euro, di cui 548.676 milioni di euro solo in Emilia-Romagna ([2]).

In tale contesto di crisi economica e sociale, molti imprenditori del settore alberghiero, considerate le difficoltà di far fronte regolarmente alle obbligazioni assunte, si pongono sempre più assiduamente domande sulle sorti e i rimedi adottabili relativamente ai contratti commerciali (principalmente forniture e affitto di azienda) stipulati antecedentemente alla pandemia.

Al riguardo, la disciplina introdotta dal Governo per l’emergenza epidemica non detta regole circa gli effetti generati da tale emergenza sui contratti in corso di esecuzione, ad eccezione dei contratti di trasporto aereo, ferroviario, terrestre e marittimo nelle acque interne (art. 28 del D.L. 2 marzo 2020, n. 9), nonché dei contratti di soggiorno e per l’acquisto di biglietti per spettacoli, musei e altri luoghi culturali (art. 88 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18), tutti dischiarati risolti ex lege con obbligo di rimborso di quanto già pagato.

Pertanto, nell’affrontare la questione occorre rifarsi alla disciplina generale contenuta nel Codice Civile, come peraltro espressamente indicato anche dallo stesso Legislatore all’art. 91 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 che ha introdotto nell’art. 3 del D.L. 23 febbraio 2020, n.  6 (conv. con modificazioni in legge 5 marzo 2020, n. 13) il comma 6-bis, il quale prescrive per l’appunto che “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

Nel caso del contratto di affitto di azienda alberghiera, essendo stata autorizzata dal Legislatore la prosecuzione di tale attività con il D.P.C.M. 22 marzo 2020, il Covid-19 non ha certamente reso impossibile la prestazione dedotta in contratto – i.e. il libero godimento dell’azienda – il quale non potrà pertanto considerarsi risolto ex art. 1463 c.c.

Analogamente, la prestazione non potrà nemmeno essere considerata temporaneamente impossibile, ai fini della sospensione degli effetti del contratto (cfr. Cass. 27 settembre 1999, n. 10690, in Pluris.it), oppure parzialmente impossibile, ai fini del riequilibrio del sinallagma contrattuale o del recesso ex art. 1464 c.c.

L’emergenza Covid-19 ha però innegabilmente inciso sull’equilibrio del contratto di affitto d’azienda, rendendo la prestazione dell’affittuario eccessivamente onerosa o oggettivamente svilita nel proprio valore e/o nella propria utilità, in considerazione del rilevantissimo calo di fatturato atteso e degli imponenti costi di gestione sopravvenuti per la sanificazione ed il rispetto dei Protocolli di sicurezza necessari per tenere aperta l’azienda.

Di conseguenza, si ritiene plausibile che l’affittuario, alla luce dell’eccessiva onerosità sopravvenuta dovuta ad un evento straordinario e imprevedibile, quale per l’appunto l’emergenza epidemica, che esula dalla normale alea del contratto – eccessiva onerosità da valutarsi non in senso assoluto bensì relativo, in considerazione della situazione esistente al momento della conclusione del contratto – possa ricorrere al rimedio della risoluzione del contratto ex art. 1467 c.c.

Al riguardo, peraltro, si osserva che, alla luce del tenore letterale del terzo comma della norma citata, il quale prescrive che “La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”, in linea generale non è previsto un obbligo di rinegoziazione del sinallagma contrattuale. Circostanza quest’ultima che trova conferma nella previsione speciale dettata in tema di appalti ai sensi dell’art. 1662 c.c., che prevede espressamente un obbligo di rinegoziazione in caso di circostanze sopravvenute, in ragione del carattere della prestazione fortemente conformata che ne impedisce una facile riallocazione sul mercato.

Parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza, tuttavia, sul presupposto che il contratto obbliga le parti contraenti anche a tutto ciò che è previsto dalla legge, richiamando gli obblighi di correttezza e buona fede in executivis ex artt. 1175 e 1375 c.c., ritiene sempre sussistente un diritto di rinegoziazione del sinallagma contrattuale divenuto squilibrato per un evento eccezionale sopravvenuto (c.d. equità integrativa), senza però risolvere il problema dei rimedi esperibile in caso di inottemperanza.

In conclusione, si può affermare che nella fattispecie del contratto di affitto di azienda alberghiera, in assenza di un’espressa clausola inserita in contratto che preveda lo “ius variandi” in caso di sopravvenienze, l’affittuario potrà certamente richiedere la risoluzione immediata del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c. ed eventualmente, qualora vi sia un interesse al mantenimento del rapporto, proporre preventivamente una riduzione (anche temporanea) del canone di affitto, che tuttavia non obbligherà in alcun modo il locatore.

([1]) L’Istat ha evidenziato che “secondo i dati di Contabilità nazionale riferiti al totale delle attività economiche e inclusi della componente dell’economia non osservata, la limitazione delle attività produttive coinvolgerebbe il 34,0% della produzione e il 27,1% del valore aggiunto. Seppure limitate nel tempo e ristrette a un sottoinsieme di settori di attività economica, tali misure sono in grado di generare uno shock rilevante e diffuso sull’intero sistema produttivo”.

([2]) A. Polazzi, Alberghi e ristoranti. Stime preoccupanti: crollo del fatturato di 1,2 miliardi, in https://www.newsrimini.it/2020/04/alberghi-e-ristoranti-stime-preoccupanti-crollo-del-fatturato-di-12-miliardi/